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Le Marche martoriate dal cielo e dalla terra

Le Marche ancora colpite, stavolta dalla terra che ieri ha tremato dopo che il cielo a metà settembre aveva flagellato la regione con una tremenda alluvione.

Queste tragedie ci ricordano quanto siamo fragili e quanto abbiamo davvero bisogno di un aiuto dall’alto.

Non sembra davvero esserci pace per le Marche. Prima la spaventosa alluvione a cavallo tra il 15 e il 16 settembre che ha messo in ginocchio la regione facendo 12 vittime. E come se non bastasse, ieri mattina il forte terremoto (magnitudo 5.7) che grazie a Dio ha procurato solo tanta paura. Un periodo particolarmente tormentato dunque, come se cielo e terra si fossero accaniti contro questa regione.

Per un cristiano il primo dovere – oltre a quello dell’aiuto materiale – resta quello della preghiera per gli abitanti, fratelli in umanità, che hanno subito danni e perdite materiali ma anche perdite tremende in termini di affetti. Pensiamo qui in particolare alla vicenda straziante del piccolo Mattia Luconi, otto anni. Strappato alle braccia della mamma dalla furia del fiume, lo ritrovarono privo di vita dopo giorni di affannose ricerche e di speranze infrante.

La vita, la cosa più fragile al mondo

Tragedie come queste ci ricordano, con la forza inarrestabile – e perciò incontestabile – dei fatti quanto in definitiva siamo esseri fragili. Una verità nota agli uomini di tutti i tempi. E che non cessa di essere vera anche in un tempo in cui l’uomo crede di essersi schermato dalla natura grazie alla scienza e alla tecnica. Lo sapeva il poeta Pindaro quando diceva che «l’uomo è il sogno d’un’ombra». Lo sapeva Simone Weil quando scriveva che «la nostra carne è fragile: qualsiasi pezzo di materia in movimento può trafiggerla, lacerarla, schiacciarla, oppure inceppare per sempre uno dei suoi congegni interni». Lo sapeva pure Pascal quando lo mise nero su bianco in uno dei suoi fulminanti aforismi: «Tra noi e l’inferno e il cielo c’è solo la vita, che è la cosa più fragile del mondo».

Fragile, ovvero precario

Fragile viene, non a caso, da fragilis (dalla stessa radice di frangere, cioè rompere). Una cosa è fragile quando può andare a pezzi, in frantumi. In altre parole, la fragilità ci rende precari.

Ecco perché ci viene istintivo pregare. Pregare e essere precari in fondo è la stessa cosa: preghiera viene da precarius. Nei momenti in cui siamo fragili e precari ci scontriamo col nostro limite. Allora ci viene istintivo rivolgere lo sguardo verso l’alto. E capiamo che il cielo non è chiuso, che la terra non è la nostra dimora ma soltanto un soggiorno, un posto di passaggio. La nostra patria è nei cieli. Che consolazione sapere, come ci ricorda il grande Fulton Sheen, che «la morte non è la fine di tutto. La gelida terra che ricopre la tomba non segna la fine della storia di un uomo».

Proprio ieri ce lo ha confermato, tra le letture del giorno, il Salmo 45: «Dio è per noi rifugio e fortezza, aiuto infallibile si è mostrato nelle angosce. Perciò non temiamo se trema la terra, se vacillano i monti nel fondo del mare». 

Non temere quando trema la terra e vacillano i monti. Impossibile all’uomo se non quando confida nel Dio vivente, che ci ha messo accanto la sua Madre dolcissima, la Vergine Maria, affinché non attraversassimo da soli le tenebre di questo mondo.

Emiliano Fumaneri

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